“Welcome to Sky Valley” dei Kyuss, un rituale a base di droghe e rock consumato sulla sabbia del deserto (2024)

Il cartello si trova all’entrata sud della cittadina ed è probabilmente una delle indicazioni stradali più famose al mondo, tanto da essere considerata da Google Maps come luogo di pubblico interesse. Il fotografo di Los Angeles Alex Solca lo immortala al tramonto, illuminato dai fari di un furgone, e il suo scatto finisce sulla copertina del terzo disco dei Kyuss, ufficialmente un self titled, ma conosciuto da tutti proprio con il nome di Welcome to Sky Valley. La band si è formata nel 1987 là vicino, a Palm Springs, una metropoli in confronto a quel census-designated place di duemila anime: quando si appresta a registrare l’album, nei primi mesi del 1993, è formata dal chitarrista Josh Homme, dal cantante John Garcia, dal batterista Brant Bjork e dal bassista Scott Reeder, arrivato l’anno prima dagli Obsessed in seguito all’abbandono di Nick Oliveri. Studio (i mitici Sound City) e produttori (la band e Chris Goss dei Masters of Reality) rimangono gli stessi del precedente Blues for the Red Sun, ma questa volta l’etichetta non è la sussidiaria Dali, bensì la label “madre” Chameleon. Il secondo album della band è stato un successo e ha codificato un suono mischiando doom, space rock e psichedelia con l’approccio sperimentale e improvvisativo di certi eroi locali come gli Yawning Man, protagonisti di fluviali ed evocative jam session e originari di La Quinta, una cittadina prettamente turistica a mezz’ora di macchina da Sky Valley.

Tuttavia, non sono i centri urbani a essere significativi per la musica dei Kyuss: o meglio, lo sono indirettamente, perché buona parte dell’area compresa tra il Joshua Tree Park e la Foresta di San Bernardino è per lo più un grande e privatissimo buen retiro per star e ricchi losangelini che possono godere di una privacy e di una calma impensabile a Hollywood o a Beverly Hills. Chi vive tutto l’anno in quei posti, e non è nessuno, è travolto dalla noia. Prova quindi a combatterla skateando nelle piscine vuote, distruggendosi di canne, anfetamine e altre sostanze, ma anche suonando. Almeno non ci sono problemi con il vicinato, perché basta radunare qualche macchina e pick up, caricarla con birra, strumenti e un generatore a gasolio e raggiungere in pochi minuti il palco più grande del mondo. Sono proprio le temperature estreme, gli spazi e i cieli sconfinati del deserto la vera fonte di ispirazione per tutta una scena, chiamata non a caso desert rock o scena di Palm Desert, di cui i Kyuss sono tra i massimi precursori ed esponenti. Il debutto Wretch mostra già la loro potenza, ma è l’album successivo a lasciare il segno nonostante le vendite inizialmente scarse, tanto da proiettare i quattro sulla scena internazionale. L’addio di Oliveri non ha segnato un momento facile e anche le due anime creative del gruppo, Bjork e Homme, talvolta fanno scintille, ma nei primi mesi del 1993 la carica con cui tutti affrontano le registrazioni di un terzo album che ancora dovrebbe chiamarsi Pools of Mercuryè ai massimi livelli. La band sa di avere dieci canzoni potenti ed efficaci, libere come non mai nelle strutture e negli sviluppi, al punto da immaginarle come lunghe suite: le prime stampe del CD, in effetti, conteranno solo tre tracce, a sottolineare l’importanza di questa visione, che qui manterremo.

La prima parte di Welcome to Sky Valley dura poco meno di 18 minuti e comprende Gardenia, Asteroid e Supa Scoopa and the Mighty Scoop. Il brano iniziale è uno dei più noti e amati del repertorio del quartetto ed è firmato (a differenza di buona parte del disco, opera di Josh Homme) dal solo Brant Bjork: introdotto da chitarre ronzanti subito raggiunte dalla sezione ritmica, ha un incedere pesante, che viene mantenuto per quasi tutta la sua durata. A variare questo monolite c’è solo qualche svisata blues e qualche fill di batteria (altrimenti granitica), ma soprattutto un segmento centrale, introdotto da un assolo insistito e monocorde, che sfocia in una curiosa sezione funkeggiante, con tanto di staccati con wah wah. Questa prima traccia rivela già il prodigioso equilibrio dell’album: tramite sagaci alleggerimenti può permettersi di insistere a lungo su alcune sezioni fino a diventare ossessivamente ipnotico, per poi lasciarsi andare a deviazioni spiazzanti e succose. John Garcia gioca un ruolo importante in questo bilanciamento perché la sua voce è uno dei timbri portanti del disco (seppure per buona parte strumentale), nonché del repertorio dei Kyuss e del desert rock in genere. In Gardenia entra dopo un minuto, mischiando riferimenti all’uso di sostanze («One blow till I’ll take ya down, I’ll take ya down / One smoke and your head spins around and around») a una sessualizzazione dell’automobile («Hear a purrin’ motor / And she’s a-burnin’ fuel / Push it over, baby / We’re makin’ love unto you»). Nella successiva Asteroid, invece, non c’è proprio: lo spazio è gestito con sapienza esclusivamente da chitarra, basso e batteria, che creano un viaggio allucinato e allucinante, segnato da un riff introduttivo indimenticabile. Momenti di vuoto cosmico e improvvise ascensioni si alternano tra rumori ed effetti, in cui pare che il Jimi Hendrix più sperimentale stia jammando con gli Hawkwind, fino a che la canzone si quieta totalmente, prima di ripartire con il riff iniziale. Nella ripresa, però, le due linee di chitarra e il basso si muovono su percorsi diversi, in maniera non dissimile da quello che facevano Tony Iommi e Geezer Butler, prima che tutto converga nell’accelerazione e nello schianto finale, ampliato dalle percussioni di Peter Moffett. Supa Scoopa and the Mighty Scoop è invece un’eccellente sintesi di pesantezza e melodia: John Garcia brilla quando canta di morte e abbandono, mentre basso e chitarre riducono le migliaia di chilometri che separano la Birmingham dei Black Sabbath e Palm Springs. I riff si intrecciano e sono ripresi anche dalla voce, fino agli staccati finali in cui ogni suono viene risucchiato dal silenzio assoluto del deserto.

Uno dei punti di forza di Welcome to Sky Valley è dato dalla volontà di Chris Goss di fermare su nastro l’impatto live dei ritrovi spontanei nel deserto, dove il suono è schiacciato e disperso dal vento, i riverberi dei pedali si confondono con quelli del sole calante e i piatti sembrano sibilare come serpenti. Un suono poco compresso, caldo, dettagliato e stordente, che risponde perfettamente all’attitudine “stoned” e psichedelica dell’album: tuttavia la “dieta” della scena non prevedeva solo marijuana e funghetti, ma anche droghe stimolanti, come anfetamine e cocaina. Sembrano essere questi ultimi tipi di sostanze a “ispirare” 100°, la canzone che apre la seconda parte dell’album: breve, concisa e compatta, risente degli ascolti punk e hardcore della band ed è animata da un senso di urgenza e rabbia spezzato solamente da un intermezzo, prima di concludersi con uno schianto non dissimile a quello di Asteroid. Si torna nel cosmo con Space Cadet, firmata da Homme e Reeder, dove ritmi e timbri ricordano molto quelli di Planet Caravan e permettono di assaporare il lato più psichedelico dell’album: percussioni, chitarre e basso (per lo più) acustici costruiscono una struttura che, oltre a far riaffiorare un’anima blues sempre presente, accoglie la melodica e soffusa voce di Garcia, tutta spostata sul canale destro, impegnata in riflessioni sulla solitudine e il distacco. La sensazione dell’ascoltatore non è più quella di trovarsi di fronte alla band, come è accaduto finora, ma sul palco con lei: la canzone, infatti, modifica il classico settaggio rock che vede voce, basso e batteria al centro dello spettro sonoro e le chitarre (inserite da Homme in amplificatori per basso) ai lati. I toni si ingrossano nuovamente nella successiva Demon Cleaner, unico singolo estratto dal disco. Sciamanica, visionaria e martellante, la canzone è caratterizzata da ritmi giocati su cassa e tom, riff acidissimi e da un cantato fragile e straniante, in splendido contrasto con il resto dell’arrangiamento, e racconta una visita dal dentista che assume la valenza di un rito di esorcismo, purificazione e liberazione dai peccati.

La terza e ultima parte del disco comincia con la sfrenata cavalcata di Odyssey, una sorta di fratello gemello di Gardenia, dove l’attacco di John Garcia («Take one to the mountain / Take one to the sea / Take one to the belly of the beast / And then you’ll take one with me») fa venire i brividi ancora oggi, dopo un quarto di secolo. Proprio come accadeva nel pezzo precedente, un accadimento terreno e quotidiano (qui probabilmente una lunga e imprevista scarpinata nel deserto sotto l’effetto di allucinogeni) si trasfigura in qualcosa di simbolico e mistico. Torna la sferzante giustapposizione di freddo e caldo già vista in 100°, le consuete accelerazioni, decelerazioni e break di chiara matrice sabbathiana. L’arrangiamento assume sagome più o meno massicce, con Scott Reeder che macina senza sosta sulle sue quattro corde distorte, mentre Homme è una sicurezza anche quando si sdoppia per fondere un assolo con la ripresa del riff iniziale. La successiva Conan Troutman è la traccia più breve dell’album: sfrontata, rabbiosa, ricca di voci, vocine, vocette e sussurri (una lezione che Homme riprenderà per decorare molti brani dei Queens of the Stone Age), parla di marijuana («Feed my lung, flower seed») e cita ancora una volta i 100 gradi fahrenheit (circa 38°C) come temperatura di riferimento. La scaletta continua con l’unica cover presente, N.O., originariamente degli Across the River, una formazione dove militavano Scott Reeder e Mario Lalli (che fonderà nel 1994 i Fatso Jetson), qui ospite alla chitarra. Nonostante non sia scritta dai Kyuss, e sia stata cambiata di tonalità per adattarla all’estensione di Garcia, la traccia è perfettamente in linea con il disco, piazzandosi subito prima della composizione più lunga e libera del lotto, firmata interamente da Brant Bjork, Whitewater. Il titolo si riferisce probabilmente a un altro census-designated place della contea californiana di Riverside, non distante da Palm Springs e da Sky Valley, ma è più generalmente un inno alla madre natura, dove psichedelia, hard rock e schemi a un centimetro dal prog si fondono in otto minuti travolgenti. La voce di Garcia è immersa nel mix e urla «Oh sunshine / The loving beauty / Pass me by / Should I waste my time / In your valley / Beneath your sky?», prima di concludere con un catartico «Aah, I am home», quasi fosse un sospiro di fronte al ritrovato cartello “Welcome to Sky Valley”. Mistica, astratta, spirituale, forgiata da riff distorti alternati a suoni liquidi e ariosi, la traccia evoca tutti gli elementi toccati finora in furenti cavalcate e improvvisazioni dilatate, in cui ognuno dei musicisti dà il suo meglio. Bjork gioca ancora una volta meravigliosamente sui piatti, mentre il basso di Reeder è sempre sul punto di diventare una seconda chitarra e duettare con la sei corde di Homme. Questo picco spirituale, tuttavia, non è la vera conclusione dell’album: dopo un minuto di silenzio irrompe l’organetto di Lick Doo, l’immancabile traccia nascosta, un’ode alla fellati* che alleggerisce il disco, ma di cui – diciamolo – si poteva anche fare a meno.

«Ascoltare senza distrazioni»: queste sono le prime parole del libretto, che comprende le foto di un’immensa pala eolica, del terreno desertico spaccato dalla siccità e un ritratto dei quattro musicisti, sempre scattate da Alex Solca. Purtroppo, però, ci vorrà molto più tempo del previsto perché l’album si possa davvero sentire: la Chameleon, infatti, fallisce improvvisamente nel novembre del 1993, e viene rilevata dalla Elektra. La data di uscita si sposta da gennaio a marzo del 1994, e quindi in via definitiva alla fine di giugno, il 28, praticamente un anno dopo la fine delle session di registrazione. Tutto questo non aiuta una formazione attraversata da numerose fratture interne: Homme considera il disco come fosse figlio suo da un lato e dall’altro inizia a essere soffocato dalla band. Dirà, in un’intervista del 2011: «Ho vissuto tutta la mia vita nei Kyuss, sin da quando ero un ragazzo [non aveva neanche quindici anni, ndSA], e avevamo tutta una serie di regole basate su cosa non si poteva fare. Io volevo un nuovo insieme di regole basato su quello che si poteva fare». Allo stesso tempo Brant Bjork, spesso in conflitto con il chitarrista, è esaurito – proprio come Garcia – dalla vita on the road: il batterista se ne andrà da lì a poco, lasciando il posto dietro le pelli ad Alfredo Hernández, già negli Across the River. Nella primavera del 1995 i Kyuss registreranno il loro ultimo LP, … and the Circus Leaves Town, che non avrà il successo critico e commerciale dei lavori precedenti, e si scioglieranno all’inizio dell’anno successivo. Nonostante alcune delle band che nasceranno dalle loro ceneri avranno qualche riscontro, non paragonabile però a quello dei QOTSA, i Kyuss rimangono i rappresentanti indiscussi di una scena di nicchia, ma significativa, che ha fatto percepire sulla pelle di un’intera generazione, indipendentemente da dove vivesse, il caldo rovente, la vastità e la libertà che solo un ambiente essenziale ed estremo come il deserto può fare provare.

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Author: Mr. See Jast

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